martedì 8 gennaio 2013

Estratto in anteprima di "Alice in Zombieland"!!!

Buon pomeriggio, lettori e lettrice dell'Antro!!!
Ieri ho avuto il piacere di comunicarvi l'immenente pubblicazione di "Alice in Zombieland" della bravissima Gena Showalter, primo volume delle Cronache del Coniglio Bianco.
La cattiva notizia è che al momento non è prevista alcuna pubblicazione cartacea, il libro sarà venduto solamente come e-book
Sono certa che questa decisione rattrista voi quanto me, possiamo solo sperare che in futuro l'editore decida di mettere in commercio anche un'edizione cartacea.
Dato che non mi piace mai darvi brutte notizie, voglio condividere con voi un estratto gentilmente fornitomi dall'Harlequin Mondadori, il quale, ne sono certa, vi piacerà tantissimo!




Un biglietto da Alice

Se qualcuno mi avesse detto che la mia vita sarebbe cambiata in un momento, sarei scoppiata a ridere. Dalla beatitudine alla tragedia, dall’innocenza alla rovina? Ma per favore. E invece è andata proprio così. Un attimo, un secondo, il tempo di un respiro, e tutto ciò che conoscevo e amavo è sparito.
Il mio nome è Alice Bell e la notte del mio sedicesimo compleanno ho perso la madre che amavo, la sorellina che adoravo e il padre che non ho mai capito finché non è stato troppo tardi. Fino a quell’istante, quando tutto il mio mondo è crollato e uno nuovo ha preso forma intorno a me.
Mio padre aveva ragione. I mostri camminano in mezzo a noi.
Di notte questi morti viventi, questi... zombie escono dalle loro tombe e bramano ciò che hanno perduto. La vita. Si nutriranno di voi. Vi infetteranno. E poi vi uccideranno. Se questo accadrà, anche voi uscirete dalla tomba. È un cerchio senza fine, come un topo che corre all’interno di una ruota di filo spinato: sanguina e muore lentamente mentre le punte acuminate gli penetrano sempre più nella carne, ma non ha modo di fermare lo slancio letale.
Gli zombie non conoscono la paura, non conoscono il dolore, ma hanno fame. Oh, se hanno fame. C’è un solo modo per fermarli, ma non posso spiegarvelo. Ve lo devo mostrare.
Ciò che posso dirvi è che dobbiamo combattere gli zombie per renderli inoffensivi.
Per combatterli, dobbiamo avvicinarci a loro. E per farlo, dobbiamo essere un po’ coraggiosi e molto folli.
Ma la volete sapere una cosa? Preferisco che il mondo mi consideri pazza mentre cado combattendo, invece di trascorrere il resto della vita nascondendomi dalla verità.
Gli zombie sono reali. Sono là fuori. Se non state in guardia, prenderanno anche voi.
E dunque, sì, avrei dovuto ascoltare mio padre. Mi aveva ripetuto mille volte di non uscire mai di notte, di non avvicinarmi mai a un cimitero e di non fidarmi mai, per nessun motivo al mondo, di qualcuno che volesse farlo. Avrebbe dovuto seguire i suoi stessi consigli... Invece si è fidato di me e io l’ho convinto a fare entrambe le cose.
Se potessi tornare indietro, farei migliaia di cose in modo diverso. Direi di no a mia sorella. Non chiederei a mia madre di parlare con papà. Non piangerei. Mi sigillerei le labbra e ingoierei quelle parole odiose.
E a parte questo, abbraccerei mia sorella, mia madre e mio padre un’ultima volta. Direi loro che li amo.
Vorrei... oh, come lo vorrei.



1. Nella tana degli zombie

La gente si era spostata nel foyer come uno sciame di api, metà aspettava, l’altra metà si dirigeva verso le porte. Fu lì che trovammo nostro padre. Si era fermato vicino alle finestre e scrutava il parcheggio. I lampioni illuminavano il tragitto fino alla nostra Tahoe, che mamma aveva parcheggiato illegalmente nel posto per i disabili più vicino, così da poter scendere e risalire più facilmente. La sua pelle aveva assunto una sfumatura grigiastra e aveva i capelli dritti in testa, come se avesse passato le dita tra le ciocche troppe volte.

Una pausa, poi: «Un coniglio?».
«Esatto. L’ho visto anche questa mattina. Deve pensare che siamo proprio straordinari.»
«Perché è così, infatti.»
Mio padre si accorse che eravamo rimaste indietro, tornò indietro di corsa, mi afferrò per il polso e mi trascinò con sé, più veloce, sempre più veloce... mentre io tenevo stretta la mano di Emma e mi trascinavo dietro lei. Avrei preferito lussarle una spalla piuttosto che lasciarla indietro, anche solo per un secondo. Papà ci voleva bene, ma una parte di me temeva che ci avrebbe lasciate lì, se lo avesse ritenuto necessario.
Aprì la portiera dell’auto e mi scaraventò dentro come un pallone da calcio. Emma mi raggiunse un secondo dopo e condividemmo un momento di eloquente silenzio dopo esserci sistemate. Divertente, dissi muovendo solo le labbra.
Buon compleanno, replicò lei, altrettanto silenziosa.
Non appena si sedette sul sedile del passeggero, papà bloccò le portiere. Tremava troppo per riuscire a mettersi la cintura di sicurezza e si arrese. «Non passare davanti al cimitero» disse a mia madre. «Ma portaci
a casa più in fretta che puoi.»
Avevamo evitato il cimitero anche all’andata, benché fosse ancora giorno, allungando inutilmente un tragitto già lungo. «Certo. Non preoccuparti.» La Tahoe si accese con un ruggito e mamma inserì la retro.
«Papà» intervenni, nel tono più ragionevole che riuscii a usare, «se prendiamo la strada più lunga, resteremo imbottigliati dove ci sono i lavori.» Vivevamo appena fuori dalla grande, splendida Birmingham e il traffico di per sé poteva diventare un orribile mostro. «Potremmo metterci mezz’ora in più. E tu non vuoi che rimaniamo imbottigliati nel traffico al buio, vero?» Avrebbe raggiunto livelli di panico tali che tutte noi avremmo artigliato le portiere pur di fuggire.
«Tesoro?» disse mia madre. L’auto arrivò all’uscita dal parcheggio, dove avrebbe dovuto svoltare a destra o sinistra. Se fosse andata a sinistra, non saremmo mai arrivati a casa. Davvero, se fossi stata costretta a sopportare mio padre per più di mezz’ora sarei saltata fuori del finestrino e, con un gesto pietoso, avrei portato Emma con me.
Se mamma avesse svoltato a destra il tragitto sarebbe stato breve, avremmo dovuto affrontare un breve attacco di panico e tutto si sarebbe risolto in poco tempo. «Andrò così veloce che non riuscirai nemmeno a vederlo, il cimitero.»
«No. Troppo rischioso.»
«Per favore, papà» dissi, pronta a usare la manipolazione. Dopotutto lo avevo già «Fallo per me. È il mio compleanno. Non vi chiederò nient’altro, lo prometto, anche se vi siete dimenticati quello dell’anno scorso e non mi avete fatto nemmeno un regalo.»
«Io... io...» Il suo sguardo continuava a guizzare qua e là, scrutando gli alberi vicini alla ricerca di un qualsiasi movimento.
«Per favore. Emma deve andare a letto, altrimenti si trasformerà in Lily della Valle delle Spine.» L’avevamo soprannominata così molto tempo prima, leggendo un libro di Patrick Carron, perché quando era stanca, si trasformava in una creatura intrattabile che si lasciava dietro una scia di cadaveri.
Em fece una smorfia e mi diede un pugno scherzoso. Io mi strinsi nelle spalle, un gesto universale per dire: be’, è vero.
Papà sospirò rumorosamente. «Okay. Okay. Ma, mi raccomando, infrangi la barriera del suono, amore» disse, baciando la mano di mia madre.
«Hai la mia parola.» I miei genitori si scambiarono un sorriso dolce. Mi sentii quasi in imbarazzo per averlo notato; una volta era sempre così, loro due si scambiavano occhiate del genere di continuo, ma con gli anni i sorrisi complici erano diventati sempre meno frequenti.
«D’accordo, andiamo.» Mamma svoltò a destra e, con mia enorme sorpresa, cercò davvero di infrangere la barriera del suono, violando tutti i limiti di velocità, passando da una corsia all’altra, suonando alle auto troppo lente e lampeggiando perché le dessero strada.
Ero impressionata. Le poche volte che mi aveva dato lezione di guida era sempre stata un fascio di nervi, con il risultato che trasformava in un fascio di nervi anche me. Non eravamo andate lontano e non avevamo osato superare i trenta chilometri all’ora anche fuori del nostro quartiere.
Non smise un attimo di chiacchierare mentre guidava e io controllai l’ora sul cellulare.
I minuti scorrevano e ne passarono dieci senza nessun incidente. Ne mancavano ancora venti.
Papà teneva la faccia premuta contro il finestrino, il suo respiro accelerato appannava il vetro. Forse stava ammirando le montagne, le vallate e gli alberi lussureggianti illuminati dai lampioni, invece di cercare mostri.
Sì. Come no.
«Allora, come sono andata?» mi sussurrò Emma.
Le presi la mano e la strinsi. «Sei stata strabiliante.»
Le sue sopracciglia scure si avvicinarono e io capii cosa stava per arrivare. Sospetto. «Giuri?»
«Giuro. Sei stata fantastica. In confronto a te le altre bambine hanno fatto schifo.» Em si coprì la bocca per fermare una risatina. Non potei fare a meno di aggiungere: «Hai presente il ragazzino che ti ha fatto fare la piroetta? Credo sia stato tentato di scaraventarti giù dal palco, in modo che finalmente qualcuno guardasse anche lui. Davvero, utti gli occhi erano puntati su di te».
La risatina proruppe, ormai inarrestabile. «Quindi stai dicendo che, quando sono inciampata, se ne sono accorti tutti.»
«Sei inciampata? Vuoi dire che non era la coreografia del balletto?»
Lei mi diede un cinque. «Bella risposta.»
«Tesoro» intervenne mamma in tono allarmato.
«Perché non metti un po’ di musica? »
Mi chinai in avanti e guardai fuori dal parabrezza. Sì, ci stavamo avvicinando al cimitero. Se non altro non c’erano altre auto nelle vicinanze, così nessuno avrebbe assistito all’imminente crisi di nervi di mio padre. Perché sarebbe crollato, era sicuro. Sentivo la tensione crescere nell’aria.
«Niente musica» disse lui. «Devo concentrarmi, restare in allerta. Devo...» Si irrigidì, stringendo il bracciolo del sedile tanto che le nocche sbiancarono.
Trascorse un momento di silenzio, teso e pesante. Il suo respiro accelerò, diventò sempre
più rapido, finché esclamò con voce stridula:
«Sono là fuori! Ci attaccheranno!». Afferrò il volante e lo girò bruscamente. «Non li vedi? Stiamo andando dritto verso di loro. Torna indietro! Devi fare inversione di marcia!»
La Tahoe sterzò bruscamente ed Emma gridò. Le afferrai la mano e la strinsi, rifiutandomi di lasciarla andare. Il cuore mi martellava contro le costole, la pelle era coperta da un velo di sudore freddo. Avevo promesso di proteggerla e l’avrei fatto.
«Andrà tutto bene» le dissi. Tremava così forte da scuotere anche me.
«Tesoro, ascoltami» disse mia madre cercando di calmarlo. «Siamo al sicuro qui dentro. Nessuno può farci del male. Dobbiamo... »
«No! Se non torniamo indietro ci seguiranno fino a casa!» Mio padre era completamente fuori di sé e non aveva sentito niente di ciò che mia madre gli aveva detto. «Dobbiamo tornare indietro!» Afferrò di nuovo il
volante, lo girò ancora, con maggior forza, e in quel caso l’auto non si limitò a sterzare,ma fece un testacoda.
Continuò a girare come una trottola per quella che mi sembrò un’eternità. Serrai la presa sulle dita di Emma.
«Alice!» urlò lei.
«È tutto okay. È tutto okay» ripetei, come se fosse un mantra. Il mondo ronzava intorno a noi, sfocato... l’auto sbandava... mio padre imprecò... mia madre boccheggiò... l’auto si inclinò, si inclinò...
FERMO IMMAGINE.
Ricordo quando Em e io facevamo quel gioco. Alzavamo al massimo il volume del nostro iPod dock – rock martellante – e ballavamo come se avessimo un attacco epilettico.
Poi una di noi urlava fermo immagine e ci bloccavamo di colpo, cercando di non ridere, finché una di noi non urlava la parola magica che ci faceva muovere di nuovo.
Balla!
In quel momento avrei voluto poter urlare fermo immagine e rimettere a posto la scena e i protagonisti. Ma la vita non è un gioco, vero?
BALLA.
L’auto si staccò dall’asfalto, si capovolse, cadde a terra, rovesciata, poi si ribaltò di nuovo. Il suono del metallo che si accartocciava, del vetro che andava in frantumi e le grida di dolore mi risuonarono nelle orecchie.
Fui scaraventata avanti e indietro sul sedile, il mio cervello diventò un frappé alla ciliegia dentro la scatola cranica, mentre un susseguirsi di colpi e urti mi toglieva il fiato. Quando finalmente ci fermammo ero così intontita e confusa che mi sembrava ci stessimo muovendo ancora. Almeno le urla erano cessate. Sentivo solo un fischio nelle orecchie.
«Mamma? Papà?» Silenzio. Nessuna risposta. «Em?» ancora niente.
Mi guardai intorno. Avevo la vista un po’ appannata, qualcosa di caldo e umido mi colava
tra le ciglia, ma ci vedevo abbastanza bene. E ciò che vidi mi distrusse.
Urlai. Mia madre era coperta di tagli, il corpo pieno di sangue. Emma era riversa sul sedile, la testa con un’inclinazione innaturale, a guancia squarciata. No. No, no, no.
«Papà, aiutami. Dobbiamo tirarle fuori!»
Silenzio.
«Papà?» Lo cercai... e mi accorsi che non era più nell’abitacolo. Il parabrezza era in frantumi e lui giaceva immobile su una distesa di frammenti di vetro qualche metro più avanti. C’erano tre uomini in piedi intorno
a lui, illuminati dai fari dell’auto. No, non erano uomini, mi resi conto. Non potevano esserlo. Avevano la pelle cascante e butterata, i vestiti sporchi e laceri. I capelli pendevano in ciocche rade dagli scalpi chiazzati e i loro denti... erano così taglienti mentre... mentre si lanciavano su mio padre e svanivano dentro di lui, per riemergere un secondo dopo e... e... divorarlo.
Mostri.
Cercai di liberarmi, dovevo portare Em in salvo – Em, che non si muoveva e non piangeva – dovevo raggiungere mio padre, aiutarlo. Urtai qualcosa di duro e tagliente con la testa. Avvertii un dolore devastante, ma cercai di resistere mentre le forze mi abbandonavano, la vista si offuscava...
Poi fu notte-notte per Alice e non seppi altro.
Almeno per un po’.
Mamma stava ancora cercando di calmarlo. Grazie al cielo era riuscita a disarmarlo prima che uscissimo di casa. In genere portava pistole, coltelli e stelle ninja ogni volta che osava uscire.
Appena li raggiunsi, lui si voltò e mi afferrò per le braccia, scuotendomi. «Se vedi qualcosa nell’ombra, qualunque cosa, prendi tua sorella e scappa. Mi hai sentito? Prendila e torna subito dentro. Chiudi le porte, nasconditi e chiedi aiuto.» I suoi occhi erano blu elettrico, da allucinato, e le pupille si erano dilatate fino a coprire quasi del tutto le iridi.
Il senso di colpa divampò dentro di me.
«Lo farò» gli assicurai, posando le mani sulle sue. «Non preoccuparti per noi. Mi hai insegnato a difendermi, ricordi? Proteggerò Em, a qualunque costo.»
«Okay» disse lui, anche se non sembrava per niente soddisfatto. «Allora va bene.» Avevo detto la verità. Non so per quante ore mi fossi allenata con lui nel giardino dietro casa, imparando a bloccare potenzia li aggressori. Certo, quelle lezioni in teoria servivano a impedire che i miei organi interni diventassero la cena di qualche essere decerebrato, ma l’autodifesa era sempre autodifesa, giusto?
Mia madre riuscì a convincerlo ad avventurarsi all’esterno. Nel frattempo la gente ci scoccava occhiate sconcertate che cercai di ignorare. Camminammo tutti insieme, come una vera famiglia, mettendo un piede davanti all’altro così in fretta che sembrava volassimo. Mamma e papà davanti, Em e io pochi passi dietro di loro, tenendoci per mano mentre i grilli frinivano, fornendoci una bizzarra colonna sonora.
Mi guardai intorno, cercando di vedere il mondo come doveva vederlo mio padre.
Scorsi un lungo tratto di catrame nero... mimetizzazione? Un mare di macchine... possibili nascondigli? E dietro i boschi che coprivano le colline... luogo di riproduzione degli incubi?
In alto nel cielo splendeva la luna, piena e meravigliosamente nitida. C’erano ancora delle nuvole, arancioni e un po’ inquietanti.
E quello era... no, impossibile... Battei le palpebre, rallentai. Caspita, sì! Era proprio lui. La nuvola a forma di coniglio mi aveva seguita. Bizzarro. «Guarda le nuvole» dissi a Em. «Noti niente di strano?»

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