Il tuo meraviglioso silenzio
Katja Millay
Pagine: 420
Prezzo: 14,90
Data di uscita: 2 settembre
Trama: le sue dita non possono più correre sul pianoforte, il suo mondo pieno
di note è diventato muto. Nastya era una promessa della musica, prima.
Prima che tutto precipitasse, prima che la vita perdesse ogni
significato. Da 452 giorni Nastya ha smesso di parlare, e il suo unico
desiderio è tenere nascosto il motivo del suo silenzio. La storia di
Josh non è un segreto: ha perso tragicamente i suoi cari, e solo nel
recinto impenetrabile che ha costruito intorno a sé si sente al riparo
dalla compassione degli altri e libero di dedicarsi in solitudine
all'unica cosa che lo tiene in vita: intagliare il legno. Quando sembra
non esserci più luce né speranza, Nastya e Josh si trovano e le
sensazioni sopite esplodono dal corpo e dal cuore. Due lontananze si
incontrano, cercando l'una nell'altra la forza per superare il passato e
rinascere davvero.
La mia opinione: in Italia questo libro verrà pubblicato i primi di settembre da Mondadori, ma visto il rating su Goodreads e le varie recensioni ho deciso subito di leggerlo in inglese, così da potervene parlare prima della pubblicazione.
Non esagero se affermo che questo libro rientra tra le migliori letture del 2014, ragion per cui fremo all'idea della pubblicazione in italiano!
La storia che viene raccontata dall'autrice, Katja Millay, è quella di Nastya, una ragazza della quale non sappiamo nulla se non che si è appena trasferita dalla zia e che le è accaduto qualcosa che l'ha resa riconoscibile agli occhi di tutti.
Nastya non parla e non perchè non possa, ma semplicemente perchè ha scelto di non farlo più. E' una ragazza in frantumi, così come la sua mano sinistra, ed esprime tutto il suo disagio attraverso l'abbigliamento e il make up: abitini attillati e stiletti, tutti rigorasamente neri, trucco carico e labbra rosse. Tutto in lei urla "statemi lontani", eppure sarà lei stessa ad infrangere a poco a poco quella barriera costruita con tanta tenacia...
Ironico il fatto che Nastya cominci ad aprirsi proprio con Josh Bennett, che al pari di lei vuole stare lontano da tutti! Il fatto è che i due ragazzi riconoscono l'uno nell'altra quel dolore che li accomuna e che li ha resi le persone che sono.
La loro amicizia è un percorso che li porta pian piano a guarire una ferita alla volta, a respirare nuovamente e a vivere.
E' stata una scelta azzeccatissima quella dell'autrice di non far scoppiare l'amore all'improvviso, ma sviluppare gradualmente un rapporto complicato e pieno di punti interrogativi che assillano sia Josh che il lettore, scoprendo tutte le carte solo alla fine.
Perchè ho amato questo libro? Semplicemente perchè ogni personaggio nasconde un mondo complicato, a volte fatto di dolore e sofferenza, la loro complessità li rende vividi facendogli bucare il foglio. E poi ci sarebbero altri mille motivi per amarlo, ma metterli nero su bianco è la cosa più difficile che ci sia. Non riesco quasi a descrivere tutte le emozioni che mi ha regalato questo libro e quanto io mi sia affezionata soprattutto ai protagonisti!
Questa non è una storia d'amore, sarebbe estremamente riduttivo, ma è la storia di due persone che si salvano a vicenda, trovando l'uno nell'altra un posto da chiamare casa.
Il mio voto:
PICCOLA SOPRESA! LA MONDADORI CI HA GENTILMENTE REGALATO IL PRIMO CAPITOLO IN ANTEPRIMA!
Odio la mia mano sinistra. Odio guardarla. Odio quando si blocca e
trema, a ricordarmi che ho perso la mia identità. Ma la guardo comunque,
perché mi ricorda anche che riuscirò a scovare chi mi ha portato via
tutto. Ucciderò il ragazzo che mi ha uccisa, e lo farò con la mano
sinistra.
Capitolo 1
Nastya
Morire non è poi così male dopo la prima volta.
Lo so per esperienza.
La morte non mi spaventa più. È tutto il resto a spaventarmi.
Agosto
in Florida significa tre cose: caldo, umidità opprimente e scuola.
Scuola. Sono più di due anni che non ci torno. A meno che uno non
consideri scuola starsene seduti al tavolo della cucina a studiare da
privatisti con la propria madre, e per me non lo è di certo. È venerdì.
Il mio ultimo anno di liceo inizia lunedì, ma non mi sono ancora
iscritta. Se non mi presento oggi, non avrò un orario lunedì mattina, e
mi toccherà aspettare in ufficio finché non me lo daranno. Mi sa che
preferisco evitare la pessima scena da film anni Ottanta in cui il primo
giorno arrivo già in ritardo e tutti smettono di fare quello che stanno
facendo per fissarmi. Anche se esiste di peggio nella vita, sarebbe
comunque una seccatura.
Mia zia svolta nel parcheggio della Mill
Creek Community High School con me al rimorchio. È una scuola come tutte
le altre. Se non si considera il colore putrido delle pareti e il nome
sulla targa, è uguale identica a quella dove andavo prima. Margot – mi
ha fatto rinunciare a “zia” perché la fa sentire vecchia – abbassa il
volume della radio che ha tenuto a palla per l’intera durata del
viaggio. Per fortuna il tragitto è breve, perché i rumori forti mi danno
fastidio. Non è il suono in sé, ma il volume alto. I suoni forti
finiscono per inghiottire quelli deboli, e i suoni deboli sono quelli
che fanno più paura. Ora posso farcela perché sono in macchina, e di
solito in macchina mi sento al sicuro. Fuori è un altro discorso. Non mi
sento mai al sicuro, fuori.
«Tua madre si aspetta una telefonata
quando hai fatto qui» mi dice Margot. Mia madre si aspetta un sacco di
cose che non otterrà mai. Nell’economia del tutto, una telefonata non è
una pretesa esagerata, ma questo non significa che debba averla vinta
per forza. «Cerca almeno di mandarle un messaggio. Quattro parole.
Registrazione fatta. Tutto bene. Se poi ti senti particolarmente
generosa, alla fine puoi anche aggiungerci una faccina sorridente.»
La
osservo di traverso dal posto del passeggero. Margot è la sorella
minore di mamma, una decina d’anni in meno. È l’opposto di lei quasi in
tutto. Non le somiglia per niente, il che vuol dire che non somiglia
neanche a me, visto che io sono la copia sputata di mia madre. Margot ha
i capelli biondo sporco, gli occhi azzurri e un’abbronzatura costante
che mantiene con facilità lavorando di notte e sonnecchiando di giorno a
bordo piscina, anche se è infermiera e dovrebbe sapere che non fa bene
alla pelle. Io ho un incarnato pallido, occhi castano scuro e capelli
lunghi, mossi, quasi neri ma non proprio. Lei sembra uscita da una
pubblicità della Coppertone. Io da una bara. Solo uno stupido potrebbe
pensare che siamo parenti, anche se è una delle poche certezze che mi
rimangono.
Ha ancora quel sorriso furbetto stampato in faccia,
consapevole del fatto che, pur non avendomi convinta a tranquillizzare
mia madre, è riuscita comunque a instillarmi un po’ di senso di colpa.
Impossibile provare antipatia per Margot, anche mettendosi d’impegno, il
che me la fa odiare un po’, perché io non sarò mai come lei. Mi ha
accolto in casa sua non perché io non abbia altri posti dove andare, ma
perché non resisterei da nessun’altra parte. Per sua fortuna, le tocca
vedermi solo di sfuggita, perché una volta iniziata la scuola non saremo
quasi mai a casa negli stessi orari.
Ma anche così, dubito che
accollarsi una teenager cupa e musona sia il massimo dell’aspirazione
per una single poco più che trentenne. Io non lo farei, ma d’altronde
non sono un tipo generoso. Forse è per questo che scappo a gambe levate
da tutti quelli che mi vogliono bene. Se potessi starmene da sola, lo
farei. Ben volentieri. Lo preferirei, piuttosto che dover far finta di
stare bene. Ma non ne ho la possibilità. Perciò mi accontento di stare
con qualcuno che, almeno, non mi vuole così tanto bene. Sono grata a
Margot, anche se non glielo dico. In verità, non le dico mai nulla. No,
decisamente no.
La segreteria della scuola è un caos. Telefoni
che squillano, fotocopiatrici a pieno ritmo, voci ovunque. Ci sono tre
file davanti allo sportello. Non so a quale accodarmi, quindi opto per
quella più vicina alla porta e mi affido alla buona sorte. Margot entra
di volata alle mie spalle e mi trascina con sé superando tutte le file,
fin davanti alla segretaria. Fortuna che l’ho vista arrivare,
altrimenti, non appena mi ha posato la mano sulla spalla, si sarebbe
ritrovata faccia a terra con il mio ginocchio piantato nella schiena.
«Abbiamo
un appuntamento con il signor Armour, il preside» dice con fare
autoritario. Margot, l’adulto responsabile. Oggi recita la parte di mia
madre. È un lato di lei che non vedo spesso. Preferisce il ruolo della
zia alla moda. Non ha figli, quindi è tutto una novità per lei. Non
sapevo nemmeno che avessimo un appuntamento, ma ora ne capisco il
motivo. La segretaria, una donna sulla cinquantina dall’aspetto
sgradevole, ci indica un paio di sedie accanto a una porta chiusa di
legno scuro.
C’è da aspettare solo pochi minuti, e nessuno
sembra notarmi o accorgersi della mia presenza. L’anonimato è piacevole.
Chissà quanto durerà. Mi osservo da fuori. Non mi sono agghindata per
la visita di oggi. Pensavo di arrivare lì, compilare qualche scartoffia,
consegnare la lista delle vaccinazioni e tanti saluti. Non mi aspettavo
di trovare orde di studenti che affollano l’ufficio. Ho indosso un paio
di jeans e una maglietta nera con lo scollo a V, entrambi un pochino –
okay, molto – più aderenti del dovuto, ma per il resto del tutto
normali. È con le scarpe che mi sono messa d’impegno. Tacchi a spillo
neri. Dodici centimetri di follia. Non li uso tanto per l’altezza, anche
se ne avrei bisogno, quanto per l’effetto d’insieme. Oggi ne avrei
fatto anche a meno, solo che dovevo esercitarmi. Il mio equilibrio sui
tacchi è migliorato, ma ho pensato che una prova generale non sarebbe
guastata. Vorrei evitare di finire gambe all’aria il primo giorno di
scuola.
Guardo l’orologio alla parete. La lancetta dei secondi si
muove avanti e indietro nella mia testa, anche se so benissimo che è
impossibile sentirne il ticchettio con tutto questo baccano. Come vorrei
poter cancellare i rumori dalla stanza. Ci sono troppi suoni tutti
insieme, e il mio cervello tenta di filtrarli, di separarli in
mucchietti ben ordinati, ma è quasi impossibile con tutti gli apparecchi
meccanici e le voci che si confondono. Apro e chiudo la mano in grembo e
spero che ci facciano passare presto.
Dopo minuti che sembrano
ore, la pesante porta di legno si apre e veniamo condotte all’interno da
un tizio sulla quarantina con camicia e cravatta male assortite.
Sorride calorosamente prima di tornare a infilarsi dietro la scrivania
in una poltrona di pelle fuori misura. La scrivania è troppo grande per
questo ufficio. Ovviamente il mobilio è pensato per incutere timore,
dato che lui non ci riesce. Bastano poche parole per inquadrarlo subito
come un uomo dal cuore tenero. Spero di non sbagliarmi. Avrò bisogno del
suo appoggio.
Mi accomodo in una delle due poltroncine di pelle
bordeaux davanti alla scrivania del signor Armour. Margot sprofonda in
quella accanto alla mia e parte con la sua tirata. Rimango ad ascoltarla
per alcuni minuti mentre gli spiega la mia “situazione particolare”.
Particolare, eccome. Man mano che entra nei dettagli, vedo il signor
Armour lanciare occhiate fugaci verso di me. Gli occhi gli si dilatano
appena mentre mi osserva più da vicino, finché noto il suo sguardo
illuminarsi. Mi ha riconosciuta. Sì, sono io. Si ricorda di me. Fossi
andata più lontano, mi sarei potuta risparmiare anche questa. Il mio
nome non avrebbe suscitato reazioni, e men che meno la mia faccia. Ma
siamo ad appena due ore di macchina dal fattaccio, e basta che una sola
persona metta insieme tutti i pezzi per ritrovarmi al punto esatto in
cui ero. Non posso rischiare, quindi eccoci sedute qui, nell’ufficio del
signor Armour, tre giorni prima dell’inizio del mio ultimo anno di
liceo. Meglio fare tutto all’ultimo. Anche se almeno questo non è
imputabile a me. I miei si sono opposti con tutte le loro forze al
trasferimento, ma alla fine si sono arresi. Forse dovrei ringraziare in
parte Margot. Anche se immagino che l’aver spezzato il cuore di mio
padre abbia aiutato non poco la mia causa. E, probabilmente, erano tutti
stanchi e basta.
In questo momento sono disinteressata alla
conversazione e osservo l’ufficio del preside. Non c’è molto con cui
distrarsi: un paio di piante da interno che avrebbero bisogno di una
bella annaffiata e alcune foto di famiglia. Il certificato di laurea
appeso alla parete è dell’università del Michigan. Il nome di battesimo è
Alvis. Hmmm. Che cavolo di nome è Alvis? Secondo me non ha nemmeno un
significato, ma conto di verificare meglio più tardi. Sono lì a
soppesare mentalmente le possibili etimologie, quando vedo Margot che
estrae un faldone e glielo consegna.
Referti medici. Tonnellate.
Mentre
lui dà un’occhiata alla documentazione, il mio sguardo viene attirato
dal temperamatite di metallo a manovella sulla sua scrivania. Mi sembra
davvero strano. La scrivania è un bel mobile di ciliegio, ben diverso
dai tavolacci di plastica che di solito spettano agli insegnanti. Perché
mai uno debba montarci sopra un temperamatite così antiquato è un
mistero. Vorrei chiederglielo. Invece mi concentro sulla rotella con i
buchi per le matite di grandezze diverse e mi domando se il mio mignolo
riuscirebbe a entrare in uno di quelli. Penso a quanto sarebbe doloroso
temperarmi il dito, a quanto sangue ne uscirebbe, quando avverto un
mutamento nel tono di voce del signor Armour.
«Affatto?» Sembra nervoso.
«Affatto» conferma Margot, sfoggiando in pieno il suo tipico atteggiamento canzonatorio, stile “niente
cazzate”.
«Capisco.
Be’, faremo il possibile. Mi assicurerò che gli insegnanti vengano
messi al corrente prima di lunedì. Ha già compilato il modulo per la
scelta dei corsi?» E come da copione, eccoci arrivati al punto in cui
lui si mette a parlare di me come se non fossi presente. Margot gli
consegna il modulo e lui gli dà un’occhiata veloce. «Lo porto subito
all’ufficio iscrizioni, così per lunedì mattina possono già darle
l’orario delle lezioni. Non posso prometterle nulla riguardo alle
materie facoltative. La maggior parte dei corsi sono già pieni ormai.»
«Capiamo
perfettamente. Sono certa che farà il possibile. Apprezziamo la sua
disponibilità e, ovviamente, la sua discrezione» aggiunge Margot. È un
avvertimento. Vai così, Margot. Ma temo sia tempo perso con lui. Ho come
l’impressione che voglia davvero essere d’aiuto. Per di più, mi sa che
lo metto a disagio, il che significa che probabilmente vorrà vedermi il
meno possibile.
Il signor Armour ci accompagna alla porta,
stringendo la mano di Margot e annuendo quasi impercettibilmente verso
di me, con un sorriso forzato che penso sia di pietà o, forse, di
disgusto. Poi, altrettanto rapidamente, distoglie lo sguardo. Ci segue
nel caos della segreteria e ci chiede di attendere un istante mentre si
dirige in fondo al corridoio fino all’ufficio iscrizioni con la mia
documentazione.
Mi guardo attorno e vedo che molta della gente
che c’era prima è ancora in fila ad aspettare. Ringrazio chiunque sia il
dio che ancora crede in me. Pulirei un bagno chimico con la lingua
piuttosto che starmene altri trenta secondi in mezzo a questo casino. Ci
stringiamo contro la parete per intralciare il meno possibile il
passaggio. Non ci sono più sedie libere.
Do un’occhiata in cima
alla fila, dove un bambolotto alla Ken sfodera il suo sorriso da orgasmo
alla Signorina Acida dall’altra parte del bancone. Lei è davvero
raggiante, avvolta com’è dall’aura di seduzione che emana il ragazzo.
Non la biasimo. È il tipico belloccio che trasforma donne normalmente
rispettose di se stesse in perfette idiote. Mi sforzo di captare la loro
conversazione, qualcosa riguardo a un posto da stagista. Bastardo di un
paraculo. Lui piega la testa di lato e dice qualcosa che fa ridere la
Signorina Acida e le fa scuotere la testa con rassegnazione. Ha ottenuto
quello che voleva, qualunque cosa fosse. Osservo la piccola variazione
nel suo sguardo. Lo sa anche lui. Sono quasi ammirata.
Mentre è
lì che aspetta, la porta si apre ed entra una ragazza di una bellezza da
capogiro, che si mette a scandagliare la stanza finché il suo sguardo
non si ferma su di lui.
«Drew!» strilla in mezzo al baccano
generale, e tutti si voltano. Sembra assolutamente indifferente
all’attenzione suscitata. «Non mi va di stare tutto il giorno seduta in
macchina! Sbrigati!» La osservo per bene mentre lo incenerisce con lo
sguardo. È bionda come lui, anche se i suoi capelli sono più chiari,
come di una che abbia trascorso l’intera estate sotto il sole. È
attraente nel modo più ovvio possibile, indossa un top rosa che riempie
bene nei punti giusti, con tanto di borsetta Coach di un rosa
ossessivamente coordinato. Lui sembra lievemente divertito dalla sua
incazzatura. Dev’essere la sua ragazza. Una coppia perfetta, penso. Il
Ken strappa-mutande con Principessa Barbie Broncio: misure inarrivabili,
borsetta di lusso ed espressione infastidita inclusi!
Lui alza
un dito per segnalarle che gli ci vorrà solo un minuto. Io avrei scelto
un dito diverso. Sorrido al pensiero. Alzo lo sguardo e lo becco che mi
sorride a sua volta, con gli occhi pieni di malizia.
Alle sue
spalle, la Signorina Acida scarabocchia velocemente qualcosa sul suo
modulo e lo firma. Glielo riconsegna, ma lui ha ancora lo sguardo fisso
su di me. Io gli indico la signorina e alzo le sopracciglia. Non vuoi
pigliarti quello per cui sei venuto? Lui si volta, le prende il modulo
di mano, la ringrazia e le fa l’occhiolino. Fa l’occhiolino alla
segretaria in menopausa. È talmente spudorato da sembrare quasi sincero.
Quasi. Lei torna a scuotere la testa e lo scaccia via bonariamente.
Ottimo lavoro, Ken, ottimo lavoro.
Mentre mi godevo lo
psicodramma da ufficio, Margot parlottava a bassa voce con una tizia che
immagino sia la consulente alle iscrizioni. Drew, che ho una disperata
voglia di continuare a chiamare Ken, è ancora in piedi accanto alla
porta, a chiacchierare con un paio di ragazzi in fondo alla fila. Mi
domando se lo faccia apposta per far aumentare l’incazzatura di Barbie.
Non che ci voglia molto.
«Andiamo.» Ricompare Margot, spingendomi verso l’uscita.
«Scusate!»
echeggia la voce stridula di una donna, prima che riusciamo a imboccare
il portone. L’intera fila si volta all’unisono, a osservare la donna
che alza in aria un faldone verso di me. «Come si pronuncia questo
nome?»
«Na-sty-a» sillaba Margot mentre io mi sento morire
dentro, consapevole di tutta la gente che ci circonda. «Nastya
Kashnikov. È russo.» Le ultime due parole se le lancia alle spalle,
evidentemente orgogliosa di sé per qualche oscuro motivo, prima di
dirigerci fuori dalla porta con lo sguardo di tutti puntato sulla
schiena.
Arrivate alla macchina, Margot fa un sospiro e torna
all’atteggiamento che mi è più familiare. «Be’, anche questa è fatta.
Per ora» dice. Poi mi lancia uno dei suoi sorrisi smaglianti, da pin-up a
stelle e strisce. «Gelato?» mi chiede, ma è come se ne avesse più
bisogno lei di me. Sorrido anch’io, perché malgrado siano le dieci e
mezzo, c’è una sola risposta a questa domanda.
Sto aspettando con ansia questa uscita! Ero tentata anch'io di fiondarmi sulla copia in inglese, ma ormai manca poco all'uscita italiana, ancora un po' di pazienza.. E poi mi piace tantissimo la cover italiana *-*
RispondiEliminaSai che io l'ho trovato più fluido in inglese? Non so ma la traduzione italiana non mi piace tanto, figurati che pensavo di non leggere proprio il libro... poi ho cambiato idea! :D
EliminaLa cover è davvero carina! :D
E' da quando ho scoperto che uscirà a settembre che non vedo l'ora di poterlo leggere! :)
RispondiEliminaIo lo avevo in wishlist da tantissimo, mi sono decisa a leggerlo proprio appena saputo della pubblicazione italiana! :D
EliminaMi ispira molto, non vedo l'ora di leggerlo! Sono molto felice della prossima pubblicazione in Italia *-*
RispondiEliminaGRAZIEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE <3
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